LA BATTAGLIA DI CECINA |
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Martedì 14 febbraio 2006 ci siamo recati alla biblioteca comunale di Cecina
per l'incontro con il signor Mauro Betti, un testimone sopravvissuto ai lagher
nazisti. Il signor Betti si arruolò nell' esercito a l'età di 18 anni, nel
1940: era un radiotelegrafista della Marina Militare Italiana. Venne mandato a
Rodi a combattere sul fronte meridionale - orientale. Nel 43 l' Italia firmò l'armistizio
con gli Alleati e gli italiani rimasero lì in balia dei tedeschi. I
sopravvissuti vennero catturati e vennero portati in prigione a Zagabria, dove
iniziò il periodo più brutto della vita del nostro testimone. Riuscì a
scappare dal campo di prigionia in Croazia e si unì con i partigiani croati.
Quando lo videro lo accolsero, ma con diffidenza, perché fino a pochi mesi
prima avevano combattuto con gli italiani, che giudicavano tutti fascisti,
superata la diffidenza lo inserirono nei loro reparti, Betti si rese presto
conto che negli attacchi la posizione più pericolosa ed esposta era sempre la
sua. Ma durante una di queste operazioni vennero attaccati all' improvviso dai
Cosacchi, c' era stata probabilmente una soffiata: i partigiani in svantaggio
numerico furono uccisi tutti, e soltanto lui il signor Betti riuscì a cavarsela
e portato al campo come "trofeo". Venne imprigionato e durante questo
periodo fu avvicinato da un ufficiale della Repubblica di Salò, questi gli fece la proposta di ritornare subito in Italia come
radiotelegrafista con i repubblichini, altrimenti ci sarebbe stata la
deportazione in Germania, ma Betti che di guerra non ne voleva più sapere non
la voleva certo riprendere dalla parte sbagliata e decise che preferiva la
prigionia.
Nei campi di concentramento,- disse Betti - i tedeschi avevano impiantato la
fabbrica più terribile, quella della morte. In questo frangente della sua
storia, racconta delle atroci sofferenze che ha dovuto sopportare in quei
luoghi. Il primo campo in cui viene deportato si chiamava Grossenrose, a nord
della Polonia nazista. E' giusto precisare che per ogni campo principale erano
presenti altri campi subalterni. Betti era nel principale. Adesso si fa da parte
la cronaca per far spazio alla crudele vita nei campi. Nei campi venivano
deportati, oltre a ebrei, zingari e gente emarginata dalla società, anche
prigionieri politici e partigiani di tutte le resistenze: Betti era uno di loro.
Chi entrava dal cancello di quei campi, difficilmente ci usciva. Privati di
tutti i loro beni personali, ai prigionieri veniva sottratta anche la propria
identità. Da questo momento loro erano dei numeri, e la loro origine era
scritta sopra una targhetta triangolare di diversi colori e con sigle : per es.
IT per Italia e rosso per i deportati politici. Le condizioni di vita erano
disumane, proibitive. In una baracca, seppur bella, che poteva ospitare fino a
un massimo di cento persone, ne venivano alloggiate mille e più, in modo che in
una angusta brandina dormissero cinque persone, invece che una. I pasti
giornalieri non riuscivano a supportare una dieta sufficiente alla sopravvivenza
dei prigionieri, e tanti morivano di stenti. La mattina veniva servito del
"caffè" ( acqua nera con cereali abbrustoliti ), il pranzo consisteva
in un po' di "zuppa" (acqua colorata con due o tre rape lesse) e alla
sera finissime fettine di pane, con marmellata o burro e, se i tedeschi erano di
buon umore, anche con pochi pezzi di salame di pessima qualità. Ma questo è
niente in confronto alle sevizie che gli italiani, i Polacchi, ma soprattutto
gli ebrei dovevano subire dai "Kapò", criminali - come li definisce
Betti - senza scrupoli. Mai avvicinarsi a un "Kapò" ! Appena eri
troppo vicino… zac! Lui tirava fuori il suo bastone e senza alcun motivo,
senza nessuna spiegazione, picchiava. La morte in quei campi non faceva più
paura, tanti la pensavano come una liberazione dalle sofferenze mortali, e
tentavano il suicidio. Quando qualcuno scappava, e non veniva ripreso, a
rimetterci erano i prigionieri che erano restati. E allora li facevano rotolare
nella neve, e dovevano far vedere che provavano estremo piacere, a posto di
gelida sofferenza. Ad elencare tutte le atrocità che Betti provò in quei
campi, ne verrebbe una lunga lista di atroci fatti. Mauro Betti conobbe tre campi di
sterminio. Il primo fu quello di Grossenrose. Il secondo fu Breslaw, nel quale
visse lavorando in una fabbrica bellica impiantata accanto al campo. Il terzo
lager, quello in Germania, fu quello dove conobbe Eugenio Pertini, il fratello
di quel Sandro Pertini che sarebbe poi diventato Presidente della Repubblica. Mentre i Russi sfondavano le linee tedesche e raggiungevano i campi di
sterminio, e gli Alleati avanzavano in Italia e Francia, il Signor Betti, in
compagnia di molti altri prigionieri come lui e di un folto drappello di soldati
tedeschi, veniva trasportato verso i campi più interni del Reich. Era notte, e
una lunga fila di prigionieri era scortata da poche decine di tedeschi armati, a
chiudere la fila, un solo soldato tedesco, pronto a giustiziare chiunque
fuggisse. Tra i prigionieri, vi era Mauro Betti. Accanto a lui, Eugenio Pertini,
il fratello del futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. I due erano
divenuti molto amici all'interno dei campi di concentramento ed ora venivano
trasferiti in un nuovo campo, insieme. Stavano attraversando un sentiero in
mezzo al bosco, sulla sinistra, vi era una scarpata. Ma il povero Eugenio era
molto stanco e affaticato nel camminare, e cadde a terra. Betti però non voleva
lasciare il suo amico alla mercé dell'assassino del Reich, così con fatica
rialzò il compagno, e i due continuarono a camminare finché Eugenio non
ricadde a terra, sofferente.
Il signor Betti, esasperato, sollevò di nuovo
l'amico Pertini usando tutta la forza che aveva, e ancora una volta
proseguirono. Ma questo tratto fu ancor più breve del precedente. Dopo poco
tempo, Eugenio Pertini tornò ad accasciarsi al suolo, sfinito, per l'ultima
volta. Mauro Betti non riuscì a sollevarlo di nuovo, era fin troppo debole per
aiutare l'amico. Cercò di fare il possibile, ma ormai era tutto inutile. Il
Signor Betti rimase accanto al suo amico, finché non giunse il soldato. A quel
punto Betti si allontanò, il tedesco sparò un solo, micidiale colpo, e Eugenio
non si alzò più da quel punto. Adesso, niente legava più il Signor Betti a
quel percorso. Il suo amico era morto, e lui, solo, in compagnia di nemici
tedeschi armati, era costretto a proseguire. Ma ormai la libertà si percepiva
nell'aria, e quella notte, in quel bosco, era una notte perfetta. Una notte
perfetta, per una fuga. La fila di soldati e prigionieri stava attraversando un
punto in cui il sentiero curvava, e Betti si trovava troppo indietro per essere
scorto dai soldati davanti, e fin troppo avanti perché i soldati alle sue
spalle potessero controllarlo. Era il momento adatto da cogliere. E Betti, senza
troppe preoccupazioni, si gettò dalla scarpata. Per diverso tempo Mauro Betti
continuò a rotolare lungo la scarpata, ma lui non aveva paura della morte.
Ormai, l'attendeva da lungo tempo come una liberazione. Infine piombò in mezzo
ai rovi, graffiandosi il viso e le mani. Non poteva però uscire dai rovi, la
paura che qualcuno lo vedesse e lo riportassero tra le fila dei prigionieri lo
avrebbe paralizzato per tutta la notte. Per alcuni dei giorni successivi iniziò
poi a nutrirsi d'erba, ma infine si accorse di non digerirla, perché dopo poco
tempo la vomitava. Allora decise di uscire dal bosco, in cerca di cibarie di
maggior sostanza. Con una grande fortuna, come quella che lo aveva segnato per
tutta la sua vita nei campi, Betti trovò una fattoria. Entrò nel fienile e,
stremato dalle lunghe giornate passate a dormire nel bosco, al gelo, Betti si
riposò su una grande balla di fieno. Alcune ore dopo, però, fu svegliato da un
contadino tedesco, che gli intimava di andarsene. Betti gli chiese degli abiti,
poiché ancora indossava le vesti striate dei campi di sterminio, ma gli furono
negati, così come fu negato del cibo, o un posto dove dormire. Quando se ne
andò, ebbe però l'incontro con un francese, prigioniero di guerra, che
lavorava per il contadino. Questo gli disse di nascondersi in un covone di
paglia all'esterno, promettendogli che gli avrebbe portato del cibo. E il signor
Betti attese. Udì dei rumori, mentre era nel covone, come lo spostamento di
carri cingolati, mentre pensava con grande speranza che i carri appartenessero
agli alleati. I carri poi si allontanarono, i suoni s'indebolirono, e Mauro
Betti tornò a trovarsi solo. Il francese non tornò, mai. Il giorno dopo Betti
azzardò un tentativo di tornare nella fattoria, e la trovò disabitata.
Evidentemente i carri armati avevano spaventato il contadino tedesco, che era
fuggito assieme al prigioniero francese. E ora, il signor Betti si trovava in
una fattoria stracolma di cibo. Ricordò però cosa gli aveva raccontato suo
padre, che aveva partecipato alla prima guerra mondiale. Se per molto, molto tempo non
si è più abituati a mangiare, non bisogna ingurgitare subito una grande
quantità di cibo, perché l'organismo non reggerebbe e si potrebbe anche
morire. Così, il signor Betti andò in cucina, si preparò una specie di
zabaione in una grande tazza e ne bevve appena due sorsi, perché era già
sazio. Prese una coperta, si accucciò in un angolo della cucina per riposarsi
un po', lasciò la porta socchiusa per evitare che sbattesse. Ad un certo punto
irruppe nella stanza un uomo con un mitra, gli urlava di alzarsi, il signor
Betti intanto diceva "Calma, sono un italiano, sono italiano". A
queste parole l'uomo buttò in terra il mitra e gli andò incontro
abbracciandolo: era un italo-americano. "Povero guaglione, ma che cosa ti
hanno fatto??" disse l'uomo guardando in che stato era ridotto il signor
Betti. Il signor Betti, distrutto dalla permanenza nei campi, era pieno di
pidocchi. Allora il soldato lo fece spogliare, lavare e andò al piano di sopra
prendendo dei vesti del tedesco ormai scappato, scese e vide che il signor Betti
non aveva più un paio di scarpe perciò tornò su a prenderne un paio.
L'alleato lo prese e lo portò al campo base, tutti i soldati lo fissavano e gli
volevano dare cibo e sigarette. Il signor Betti rifiutò, molto
intelligentemente, le offerte, perché gli anni di prigionia gli avevano ridotto
abbondantemente lo stomaco, che non poteva ricevere quantità sostanziose di
cibo altrimenti non avrebbe retto. Non accettò le offerte anche perché voleva
andare in ospedale, il soldato che lo aveva salvato gli rispose che aveva già
chiamato un ambulanza, e presto si trovò in un ospedale. Appena i dottori lo
videro rimasero assai sorpresi, perché il signor Betti pesava solo 30kg. Da
quel giorno cominciò la sua graduale ripresa. Gradualmente, Mauro Betti iniziò
a mangiare e passando i giorni le dosi di cibo aumentavano e ogni domenica
veniva pesato, così dopo due settimane da i 30kg che era raggiunse i 70kg. Ciò
che sorprendeva ironicamente il signor Betti era che coloro che lo aiutavano
fossero dei tedeschi, proprio come i suoi carcerieri, gli odiati signori del
Reich, eppure questo per lui significava che non esistono intere popolazioni
malvagie, ma esistono solo persone malvagie, e non si deve perciò
generalizzare, accomunando una persona a tutto il suo popolo o a tutti coloro
che hanno la stessa nazionalità. Dopo poco tempo Betti fu dimesso
dall'ospedale, ed iniziò, a piedi, il percorso che dal Nord Italia lo avrebbe
portato alla sua casa, alla sua famiglia, ad un ritorno vero e proprio alla
vita.